La Mongolia ha due simboli, immutati dalla notte dei tempi: il cavallo che qui è letteralmente in paradiso e la gher, la casa dei nomadi mongoli, oltre un milione di persone che abitano in un territorio cinque volte più vasto dell’Italia. Senza cavalli i mongoli non potrebbero vivere, anche se oggi i trasporti si svolgono più spesso su mezzi a motore, motociclette o automobili, anche per questo il ripopolamento del parco di Khustain Nuruu con i cavalli takhi è particolarmente importante. Emoziona vedere cavalli di tutte le età che pascolano placidamente nella steppa, che stanno vicini, si rotolano nell’erba e persino riposano distesi, a contraddire il luogo comune per cui dovrebbero sempre stare in piedi. Fa tenerezza vedere il puledro che avvicina la madre per succhiare il latte, impressiona il rituale di allontanamento dalla giumenta con cui vengono separati, affinché questa dia il latte all’uomo e non più al suo cucciolo.

Senza gher non sarebbe possibile mantenere oggi, nel terzo millennio, una struttura sociale solida e funzionale fatta di famiglie, bambini, anziani che collaborano nelle attività quotidiane, sempre le stesse, che si ripetono 7g/ 7. Una gher pesa 300 kg, smontarla è facile, la si colloca su un carretto o su un furgoncino e via, verso il prossimo pascolo!


In viaggio abbiamo visto montare e smontare i campi, a UB abbiamo trovato al mercato la sezione dedicata alla gher, ai ricambi, all’esportazione. Mi spiace non essere stata all’Ikea, dove avrei potuto trovare il kit di montaggio con le istruzioni, ma in realtà non servono perché ogni pezzo di questa meravigliosa casa si incastra con il resto in modo logico e intuitivo.


La gher si monta possibilmente in piano, con la porta di legno rivolta per consuetudine a sud. Così se un viandante si perde può orientarsi osservando la disposizione di una tenda, ma essa così è anche protetta dai venti che spirano da nord. Infine prende il sole per tutto il giorno e la luce illumina, di fronte alla porta, la cassapanca con reliquie buddiste e un tavolino. Ha una struttura circolare con pavimento di feltro, isolante, ricoperto all’interno da linoleum. Ci sono le grate di legno reticolari da appoggiare verticalmente, legate insieme con i durissimi peli della criniera di cavallo, sopra le quali poggiano 91 bastoni di legno, dipinti d’arancione e decorati, legati con peli di yak.

Questi si incastrano alla cupola a ruota dentata, anch’essa dipinta, che a sua volta poggia su due grosse colonne portanti collocate al centro della gher tra i quali viene piazzata la stufa metallica. Il tubo di scarico fumi funge anche da meridiana: la luce che penetra dall’alto ne proietta l’ombra sul pavimento e consente di determinare l’ora. Geniale! La stufa è alimentata a legna o a sterco secco, si utilizza per cucinare, scaldare l’acqua, bollire il latte, produrre formaggio, riscaldare l’ambiente (nella steppa può fare freddissimo anche d’estate). Di giorno si ottiene un’ottima ventilazione sollevando il feltro alla base e spostando i teli con un sistema di funi estremamente funzionale. Vi sono 2-3 letti a una piazza abbondante, le donne stanno a sx, gli uomini a dx, i bambini dovrebbero dormire insieme ai genitori o in brandine che montano la sera.
Abbiamo visitato diverse gher, dalle più lussuose perché nuove o abitate da coppie di neosposi alle più semplici e usurate per l’utilizzo. Un tempo erano prive di elettricità e servizi, obbligando i proprietari a fare luce con candele o torce, oggi bisogna ancora prelevare secchi d’acqua al fiume o cercare un pozzo per lavarsi e cucinare, ma la tecnologia ha enormemente agevolato le condizioni di vita dei nomadi. Quasi sempre c’è un televisore che campeggia “presso” o “al posto” del tempietto (o nuovi dèi!) e una presa per l’elettricità (i loro cellulari funzionano meglio dei nostri), all’esterno la modernità è data dall’antenna parabolica, dal pannello solare o da pale eoliche nel deserto.
La gher è sinonimo di ospitalità, quando veniamo invitati al suo interno ci aspetta sempre una breve lezione di vita mongola. Sediamo sui loro letti o sugli sgabelli di legno, sempre le donne a sx, gli uomini a dx, ci raccontano della scuola che inizierà a settembre, del lavoro con gli animali, dell’inverno che sperano non sia troppo rigido. E ci offrono i loro squisiti prodotti, yogurt (lo yogurt di yak è delizioso), formaggio fresco e secco (a volte assomiglia al pecorino), airag (frizzante, dà alla testa).



Per comunicare parliamo in inglese se sono giovani, altrimenti ci pensa la guida a tradurre. E infine possiamo ricambiare con piccoli doni, ma senza eccedere: per loro è normale ospitare le persone, fa parte dell’ospitalità innata, un eccesso di zelo potrebbe essere scambiato per invadenza. Vanno bene cappellini o giochini per i bambini, penne e quaderni per la scuola, profumo o sapone per le donne, il tabacco da fiuto è gradito agli uomini. A un certo momento gentilmente ci fanno alzare per riprendere il lavoro, ci propongono di mungere le capre ma non me la sento.

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2 comments

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PRIMO!
Brava gamberettarossa!
🙂

Mauro

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ciao caro, riusciranno i ns eroi a vedersi? tu6 a MI e gli altri 2 in jap? giusto? io sto ancora dai miei ma torno eh! prima o poi torno. tu leggi e commenta che fra l’altro, non so se ci crederai, CIAO ANTONIA ti riguarda un po’… ricordi la valpolicella? ci sentiamo in questi giorni ora vado in campagna con i miei fatti sentire baci zia robi

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