Mi ci è voluto uno scatto d’orgoglio per finire questo libro perché una settimana fa, quand’ero circa a metà, sono andata in crisi e stavo per mollare. Era uno dei tre titoli di gennaio lanciati dalla biblioteca di Crescenzago, l’unico che attirasse la mia attenzione sia per la trama, le disavventure di un esattore di affitti nella Manhattan del secondo dopoguerra, sia soprattutto per l’affascinante biografia dell’autore, Edward Lewis Wallant, 1926 – 1962. Come Marylin Monroe pensai quando feci la prima ricerca, magari pure lui era un uomo dissoluto ed è venuto a mancare in circostanze misteriose, al culmine della carriera. Non lo conoscevo ma mi attraeva, anche quando scoprii che era una persona di talento ma inespressa, sprecata, tanto che Gli Inquilini di Moonbloom e un altro romanzo sono usciti postumi. Ed è morto per un aneurisma lasciando una moglie giovane e due figli piccoli.

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Norman Moonbloom è una mina vagante, ma non pericolosa, che stenta a trovare la sua strada nella vita ed è perennemente in difficoltà economiche finché il fratello decide di aiutarlo e gli affida l’esazione settimanale degli affitti in alcuni palazzi in suo possesso. Manhattan è ovviamente bellissima ma Wallant centellina ogni sua descrizione, mostrandocela quasi sempre dall’interno degli edifici, mediamente scalcinati, dove gli inquilini sono pure loro scalcinati e ci sono mille lavori di manutenzione da fare. Il ruolo di Norman Moonbloom diventa ben presto quello del confidente con un travaglio interiore che cresce dentro di lui. Oltre alle sfortune personali, infatti, il protagonista si trascina dietro rapporti irrisolti con i parenti, primo fra tutti il fratello ma anche i genitori che non ci sono più, e il retaggio storico della loro origine ebraica, con le persecuzioni naziste risalenti a pochi anni prima e quindi drammaticamente vive, nella memoria di chi le ha vissute.

Ogni giorno è scandito dalla salita in ascensore (quando questo non è rotto o minaccia di perdere un pezzo) sino all’ultimo piano per visitare uno a uno, scendendo man mano le scale, gli appartamenti e uscirne con i dollari in contanti corrispondenti all’affitto settimanale. A ogni visita si apre uno spaccato di famiglie litigiose, coppie strampalate e casi umani che gli offrono qualcosa da bere, gli confidano via via i loro problemi ed elencano impietosamente i lavori da fare, sempre più necessari e impellenti. Al fratello e proprietario non interessa un bel niente la manutenzione che è vissuta come un inutile costo, non prende neppure in considerazione l’eventualità di fare belli i suoi palazzi per renderli più vivibili agli attuali inquilini, e più appetibili a quelli che verranno.

Tutti i pensieri ricadono pertanto sulle spalle di Norman che si trova inguaiato in richieste comprensibili ma che non può soddisfare. Annullato dalle richieste degli inquilini, frustrato dalla consapevolezza della sua esistenza sottodimensionata (una vita grama che nella già Grande Mela potrebbe essere molto migliore) si trova vieppiù invischiato in una storia appassionata con un’inquilina che gli porta via delle energie preziose. Che lo fa sentire inutile ed alimenta la sua depressione. Che mette ansia pure a me a metà della lettura. Sentirsi un fallito totale è più che legittimo. Tutto volge in negativo, io stessa mi spavento e temo che la storia prenda una brutta piega. Ma poi succede qualcosa che provoca in Norman uno scatto d’orgoglio e gli fa intraprendere una strada inaspettata, accelerando il ritmo della narrazione rendendola quasi concitata. Mi viene una grande curiosità e così divoro le ultime cento pagine del libro che si chiude con un finale aperto, per me totalmente inaspettato. Buona lettura!

Gli Inquilini di Moonbloom, Edward Lewis Wallant. Baldini Castoldi Dalai 2005.

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1 Commento

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Ciao, altra recensione, altro commento integrato da una sintesi della discussione che abbiamo avuto all’ultimo incontro del gruppo di lettura della biblioteca. E’ stato interessante perché ne sono uscite due letture, due punti di vista distinti: uno, piuttosto lineare – che era poi quello di chi aveva proposto il libro e di un altro lettore – che vede in Norman il protagonista del romanzo, nella sua malattia una cesura tra il Norman di prima (inconcludente e inconcluso, un uomo che si lascia vivere perché non ha idea di ciò che vuole fare, quale direzione prendere, incapace di scegliere) e il Norman che inizia a scoprire se stesso attraverso gli altri, che prova inedite emozioni e che tenta di darsi uno scopo e alla fine se lo dà. Insomma, un personaggio che evolve.
L’altra visione, decisamente eterodossa, vede in questo romanzo un romanzo non finito, nel protagonista un non protagonista, negli inquilini, nelle loro vite dei frame, degli spezzoni di un documentario real life, come se Wallant assieme a Norman ci portasse con una cinepresa su per le scale di questi immobili e ci facesse vedere degli spaccati di vita reale, la lampadina che non funziona, l’ascensore malridotto, i corridoi squallidi e vite tanto diverse (i musicisti, la famiglia ebrea, le zie con il nipote, il pugile, l’attrice, il vecchio in disfacimento…) accomunate da un unico fattore: vivere lì, pagare il fitto. A me “Gli inquilini di Moonbloom” ha dato l’idea di un romanzo non del tutto compiuto, con un personaggio – Norman – che dall’inedia passa sì all’azione, ma restando sostanzialmente concentrato su se stesso. Norman è un po’ autistico e gravemente anaffettivo; le disgrazie altrui, i problemi degli inquilini non lo toccano davvero, anzi arriva persino a riderci senza sapere perché e senza sapersi trattenere. E’ un personaggio grigio, egoista ed egocentrico che – dopo la malattia – si dà una missione, un compito e cerca fanaticamente di assolverlo con l’unico, vero obiettivo di scoprire se stesso, di vedere fino a che punto sarà in grado di spingersi. Per me è la storia di una metamorfosi e di una nascita, quella di un Norman che nel capitolo finale si libera del suo bozzolo per emergere alla vita. Una vita della quale non sapremo nulla perché appunto il romanzo finisce con questo nuovo “inizio”. Non sapremo mai cioè se Norman sarà migliore, peggiore o uguale al se stesso di prima. Per contro, io ho trovato bellissimi e intensi i ritratti degli inquilini, co-protagonisti a colori e mi è piaciuto molto anche il cambio di prospettiva e di punto di vista che c’è stato nel libro, quando l’autore ha deciso di liberarsi di Norman per un intero capitolo e di lasciare interagire gli inquilini tra loro. Nel complesso a me il libro non è piaciuto granché (colpa anche della traduzione che, secondo me, non è di gran livello), ma l’ho sentito per certi versi vicino alla mia realtà di abitante di Via Padova.
ciao
Paolo

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