Questo è un post lungo e difficile che ho scritto di getto al mio ritorno. Più di altri post descrive lo Yemen com’era nel 2006, e in parte preannuncia quello che sarebbe diventato: una polveriera pronta ad esplodere.

Sveglia all’alba e, dopo un saluto ai delfini, facciamo ancora colazione in spiaggia e presto partiamo. Il capo del villaggio di Bir Ali mi ha dato l’opportunità di conoscere lo speciale punto di vista di un uomo d’affari a cui oggi, visto in shorts e ciabatte, non si darebbe due soldi. Invece lui, il capo, ne ha fatte di cose: dopo gli studi in patria e in Gran Bretagna, che gli hanno lasciato uno splendido accento british, si trasferì per lavoro a Jeddah in Arabia Saudita e, a quanto dice, maneggiava un bel po’ di soldi. Nel 1990, mentre i suoi connnazionali brindavano all’unificazione, fu costretto dal governo saudita a rientrare in patria, assieme ad altri due milioni di yemeniti. Il re saudita temeva la loro presenza e le possibili interferenze, economiche e non solo. Immagino che fosse difficile fare affari in un Paese arretrato economicamente e isolato politicamente, come era allora lo Yemen, così il capo si è pian piano ritirato per valutare nuove possibilità di business. Ha rilevato la concessione della spiaggia dove l’abbiamo conosciuto e vi ha ospitato migliaia di “eco turisti” da tutto il mondo mentre riprendeva i suoi contatti per non meglio specificati “nuovi investimenti” tuttora in corso. Nel 2001 ha ospitato un’imprenditrice francese, titolare di tale marchio “Abyss” cioè abissi, già attivo in Thailandia, Gibuti e altri quattro resort eco turistici in giro per il mondo. I due hanno valutato il potenziale del piccolo paradiso di Bir Ali e si sono salutati con una stretta di mano e l’accordo di valutare lo sviluppo della zona prima di fare il grande passo. Poi c’è stato l’11 settembre e poco dopo la signora francese ha scritto una lettera in cui lamentava di non voler più iniziare questa avventura, con i venti di guerra che spiravano sul Medio Oriente. E le cose si sono fermate, inabissate in un sentimento d’impotenza che anche nel 2006 serpeggia tra gli operatori turistici vittime, assieme ai cittadini, di un governo corrotto incapace di migliorare le condizioni di vita di tutti. Per questo essi alzano la voce con disordini e rapimenti, per farsi sentire, ma spesso non ottengono un bel niente. Evidentemente gli yemeniti sono un crogiolo di genti diverse, tutte fiere e buone, che dovrebbe essere condotto per mano a migliorare le proprie condizioni di vita prospettando uno sviluppo graduale a beneficio di tutta la popolazione. Ma finché verranno attuate politiche repressive, con grandi opere edilizie e stradali saldamente in mano ad aziende cinesi, per gli yemeniti resteranno le briciole degli affari e ben pochi miglioramenti. Se il presidente Ali Saleh regnava già nel lontano 1988 in una parte del Paese e siede ancora sul suo trono, ora rieletto con l’80% dei suffragi, è difficile credere alla trasparenza del voto e del governo. E per giunta “in Occidente” dove noi abitiamo le uniche notizie che arrivano dallo Yemen parlano dei disordini e dei rapimenti, così la fama di questa terra splendida è tutta negativa.

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Lungo la bellissima costa molti hanno posato l’occhio, ma nessuno osa investire per l’incertezza politica di questa zona. Raggiungiamo presto Al Mukalla attraverso una comoda strada a quattro corsie, pure qui ci sarebbe da visitare un bel porto, il centro storico e la casa sulla roccia, ma proseguiamo all’interno dove il paesaggio si fa aspro e prelude agli wadi di cui è costellato il nordest dello Yemen. Le tappe sono: Wadi Dawan dove monti alti si stagliano al di sopra di un palmeto verdissimo, Sif con alte case in adobe, ricche porte in argento battuto e alcuni edifici in colori sgargianti tra cui la casa natale di Bin Laden…

Al Hajjarayn la patria “del migliore miele del mondo”, Al Mashad con una moschea antica dalle cupole caratteristiche. A metà pomeriggio visitiamo la stupenda Shibam, città che in mezzo chilometro quadro di grattacieli cinquecenteschi condensa il desiderio antico di abitare e fare affari nel caldo ma ricco wadi, tanto da essere chiamata la Manhattan (o la Chicago) del deserto.

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Bello è passeggiare e perdersi nei suoi vicoli mentre il sole cambia il colore alle case e alle finestre, la gente esce nelle strade sterrate e ci accoglie con un sorriso. Peccato che da trent’anni l’Unesco investa qui fior di quattrini e ci sia ancora un sacco di lavoro, con tanti edifici sul punto di crollare come d’altra parte accade in tanti altri paesi yemeniti. Al tramonto saliamo sulla collina di fronte per avere un panorama globale e colorito di questa gemma di città. Siamo ormai sulla strada che taglia lo Yemen da ovest a est, non più via dell’incenso ma rotta carovaniera ultracentenaria sino alle diverse ricchezze dell’Oman. Arriviamo a Sayun col buio, ci fermeremo due notti qui: non abbiamo scelta, nessun hotel in centro ci farebbe la colazione causa ramadan, non si può nemmeno pranzare e dobbiamo stare in un posto noto per la sua bruttezza, decisamente l’hotel peggiore del viaggio… e non fatevi stuzzicare dalla piscina che non merita. Ma il nostro viaggio rimane bellissimo e ancora con tanti tesori da scoprire.

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