Scritto negli anni 2005-2007


Sapessi com’è strano, essere senza soldi a Milano. Se non fosse la parafrasi di una nota canzone potrebbe essere il ritornello che ripetono tante persone, venute qui a lavorare o a cercare fortuna in questi decenni in cui la città ha accolto prima gli italiani e poi, a migliaia, gli stranieri.


Essere senza soldi a Milano, quindi, è una condizione triste e per nulla strana che accomuna me a tanta gente alla ricerca quotidiana di un modo dignitoso per arrivare alla fine mese, senza dover chiedere soldi alla famiglia che oltre tutto è lontana e che “non posso andare a trovare solo per lavare le lenzuola e farmi prestare denaro” come saggiamente ha notato un’amica che mi conosce bene. Capita che Milano sia la città più cara d’Italia ma anche Venezia non scherza. I miei stanno a Mestre, quel brutto posto vicino a Venezia dove di solito si è di passaggio e si vede la stazione o l’aeroporto, Mestre che è sulla bocca della gente quasi solo per citare l’assurda tangenziale, trafficata anche di notte.


Sospesi tra uno sviluppo industriale finito troppo presto, poi nella crisi di un modello e alla ricerca di nuovi sbocchi occupazionali, quando però la finzione delle nuove sfide attuali ha fatto capolino senza avvisare, i milanesi hanno visto trasformare l’identità della città e i rapporti tra le persone senza poterci fare nulla. Solo chi se n’è andato ora capisce e ripete che Milano è cambiata, perché non ha senso che Piazzale Loreto sia super affollata anche di notte e che il parcheggio della darsena dei navigli sia pieno fino a tarda notte di auto provenienti soprattutto da fuori. Queste persone emigrate a loro volta, di solito per lavoro o per amore, sentono che hanno perso qualcosa e soprattutto grazie a loro chi rimane può notare i piccoli cambiamenti quotidiani, spesso in peggio, che subisce la loro città di adozione.
Oggi è facile riempirsi la bocca con stereotipi quali i benefici della globalizzazione, la riconversione industriale, la creazione di tendenze e le nuove opportunità occupazionali. Di fatto flessibilità fa rima con precarietà e, per fasce sempre più ampie di popolazione me compresa, obiettivi un tempo normali come poter comprare una casa o mettere su famiglia diventano prospettive lontane, e restano appannaggio di poche persone, quasi sempre le stesse.
I soldi, le lire e ora i famigerati euro che ci teniamo stretti nel portafoglio, sono il tormento di chi ha in tasca qualcosa che non sa quantificare, che potrebbe bastare per fare la spesa ma sarà sempre di più di quanto era necessario fino al 2001. Nessuna statistica ufficiale toglierà dalla testa della povera gente la convinzione che ora tutto è più caro, è così caro da fare veramente fatica ad arrivare alla fine del mese, alla faccia delle belle parole dei politici di turno.
Altri miraggi, che dal dopoguerra avevano supportato lo sviluppo e l’urbanizzazione favorendo una non difficile scalata economica e spesso anche la mobilità sociale, stanno scomparendo o peggio regredendo verso una mobilità al rovescio. Impiegati a vario livello, colletti blu, manager affermati e benestanti perdono colpi sotto la scure di aziende che ristrutturano, delocalizzano e chiedono di “pensare globale” quando poi localmente hanno un solo pensiero: risparmiare, quindi tagliare e licenziare, oppure fare in modo che una persona oggi svolga il lavoro che pochi anni fa facevano due o più persone. Sembra che al lavoro non ci sia più posto per tutti e che ci aspettino anni ancora più bui, dove altri tagli metteranno pesantemente in discussione un modello di lavoro e di società sempre più simile a una corda tirata, una corda che, realisticamente, un giorno potrebbe spezzarsi.


Se possiamo “ringraziare” qualcuno della situazione che si è creata nell’ultimo decennio, molto è dovuto alla tecnologia, senza dubbio i computer, internet e i telefonini hanno rivoluzionato il nostro modo di lavorare. Dieci anni fa andai per un periodo in Sud America per lavoro e non mi dispiace ricordare che tutte le sere ricevevo in albergo un lungo rotolino di carta chimica, il fax con cui l’ufficio dall’Italia mi trasmetteva le cose da fare, con il quale chiudevo la giornata nella mia stanza. Ciò mi costringeva spesso a spegnere la luce tardi, ma almeno mi gestivo meglio gli spazi mentre ora nella stessa situazione potrei ricevere in ogni momento un messaggio tipo “ti ho appena mandato una email, per favore scaricala subito, ho bisogno di una risposta entro mezz’ora”. Ma è questo il modo di lavorare?
Per non parlare di noi donne che seguendo la scia di diritti reclamati dalle nostre madri abbiamo investito e sacrificato tantissimo, ora ci ritroviamo a fare bilanci sui traguardi raggiunti dall’inizio dell’emancipazione femminile e tante, troppe volte, realizziamo che il prezzo pagato è decisamente alto, senza che gli uomini abbiano dato altrettanto alla causa delle pari opportunità.


Senza soldi a Milano non è un manuale di sopravvivenza urbana ma vorrebbe essere piuttosto il compendio dei miei quasi tre anni passati qui a lavorare (non sempre), a studiare, a cercare di crescere per trovare la mia strada in mezzo al difficile percorso dei miei coetanei, amici e conoscenti, cresciuti senza lo spettro della guerra, educati ad una competizione a volte spietata e oggi sballottati verso un futuro incerto. Da quando ho deciso di scrivere queste esperienze mi sono resa conto che devo ancora vedere tante, tantissime cose della città che mi ha accolto. Penso che chiederò supporto ai miei amici per fare delle visite mirate e annotare le mie – nostre impressioni, con la scusa di passare del tempo in questi locali.


Per concludere, senza soldi a Milano è più di tutto un modo di essere e diventa così l’ammissione di una situazione comune a tante persone che, spero, si riconosceranno negli aneddoti e nelle storie che mi appresto a raccontare. A tutti auguro una buona lettura. Roberta.

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